Anche se il nuovo regime forfetario per le imprese e i professionisti con aliquota di tassazione al 15% è in vigore dal 1° gennaio 2019, in queste prime settimane di applicazione molti dei potenziali fruitori stanno valutando l’opportunità di adottarlo oppure di passare ad un regime “normale” (semplificato o ordinario che sia). E non si tratta solo dei soggetti che già erano in forfetario secondo le vecchie regole e che, comunque, devono fare i conti, con le nuove ipotesi di esclusione, ma anche dei nuovi soggetti ammessi a causa dell’innalzamento della soglia di ricavi/compensi (portata, per tutti, a 65.000 euro annui). Non si tratta, però, di una valutazione così facile ed immediata perché le variabili in gioco sono tante e non necessariamente connesse all’applicazione (o meno) di una aliquota piatta di tassazione invece delle ordinarie aliquote IRPEF e IRAP. Infatti, se l’unico metro di valutazione fosse questo, è evidente che non ci sarebbero confronti da fare, pendendo l’ago della bilancia spudoratamente a favore della tassazione sostitutiva. Quali sono queste variabili e come incidono nel confronto tra tassazione forfetaria e tassazione ordinaria?

Primo fattore di confronto: il reddito tassato

Il punto di partenza è la base su cui si applicano le aliquote di tassazione e, quindi, il reddito imponibile. A tal fine, il regime forfetario prevede la determinazione della base imponibile, appunto, a forfait: all’ammontare dei ricavi o compensi si applicano appositi coefficienti di redditività fissati dalla Legge. Andando un po’ più in dettaglio: per i forfetari sino a 65.000 euro, restano confermate le vecchie regole secondo cui ai ricavi/compensi, imputati per cassa, va applicato un coefficiente di redditività variabile a seconda del codice ATECO del contribuente (si va dal 40% al 78%). Pertanto, non è possibilededurre i costi, così, come invece, avviene per i soggetti “normali”.

L'articolo ti è stato utile? Condividilo!