Il governo sta studiando l’aumento dell’aliquota al 10% sui contratti a canoni agevolato. In realtà non si tratta di un vero e proprio aumento.

L’introduzione del canone al 10% è stata una misura agevolativa introdotta dal 2014 per incentivare le locazioni degli immobili e risolvere in parte le difficoltà di molti ad avere degli alloggi a prezzi calmierati nei centri cittadini.

L’innalzamento dell’aliquota può fruttare allo Stato circa 115 milioni in più all’anno la cedolare secca del 12,5% sui contratti a canone concordato. La nuova aliquota è stata annunciata dal ministro dell’Economia, ed è destinata a rimpiazzare dal 2020 quella del 10 per cento.

Secondo gli ultimi dati sulle dichiarazioni dei redditi (relativi al 2017) la tassa piatta sugli affitti agevolati ha generato un gettito di 424 milioni ed è stata applicata da circa 703mila contribuenti sui 2,2 milioni che hanno scelto la cedolare. Considerando che nel 2018 gli incassi di questo tributo sono cresciuti dell’8,9%, si può stimare che con la nuova aliquota il gettito arriverebbe a 539 milioni.

Le proteste dei proprietari e degli inquilini – da Confedilizia al Sunia – fanno pensare che la partita potrebbe non essere ancora chiusa. E certo bisognerà attendere la versione finale della manovra. Ma, nel frattempo, chi ha una casa affittata (o sta per stipulare un nuovo contratto) deve regolarsi di fronte a un quadro normativo in evoluzione.

Senza modifiche di legge, l’attuale aliquota al 10% è comunque destinata a scadere a fine anno e ad essere sostituita – dal 2020 – da un prelievo a regime del 15 per cento. Ragione per cui il ministro Gualtieri ha negato che il 12,5% possa essere considerato come un rincaro. Anzi, andrebbe visto come uno sconto. Il problema è che locatori e inquilini confidavano in una conferma del 10 per cento. Da qui la delusione e le contestazioni.

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